giovedì 19 aprile 2012

FRANCESCO PALMIERI (A-3) - SETTE POESIE









Francesco Palmieri (Altamura [Bari], 1953). Docente di Materie Letterarie. Vive nell’hinterland milanese. Nessuna opera finora edita, se si escludono alcuni interventi in un’antologia (LietoColle) e in una rivista letteraria (Historica). Palmieri è presente su facebook e in alcuni siti di poesia. 

« Non posso negare il carattere filosofico del mio ‘fare poesia’ e nemmeno l’esercizio di un’amplificazione del senso letterale (o tautologico) del linguaggio, il che significa essenzialmente aver cercato di riprodurre l’eco emozionale che caratterizza alcune cognizioni strutturali dell’essere e dell’esserci. Il tempo non è un’unità di misura, soltanto. La Storia non è divenire, soltanto. E l’umano non è testa-tronco-braccia-gambe, soltanto. Ed è in quel valore aggiunto, in quella violazione della tautologia che si annida il luogo-non luogo emozionale da cui il fare poesia attinge. In fondo la poesia è una didascalia interiore, a margine della ragione e della coscienza, non per niente spesso si evoca la musicalità (del verso), e altrettanto spesso le si affida l’arduo compito di dare forma e voce a quei tratti imponderabili del sentire che, senza la poesia, rimarrebbero l’indicibile, l’inaccessibile, l’ombra scura del discorso esplicito. Insomma… ci si prova a non far estinguere lo sconcerto dell’anima, ci si prova ad affermare e riaffermare che forse il mondo non è solo ciò che accade ma anche ciò che, pur accadendo, non si vede... ». 
Francesco Palmieri






AVVERTENZA: 

A Francesco Palmeri il nostro blog ha già dedicato due post. Si veda:
FRANCESCO PALMIERI - TRE POESIE 
AGGIORNAMENTO BIO-BIBLIOGRAFICO DEL 26 MARZO 2014: 

Nell’autunno del 2012, per i tipi de La Vita Felice,  il nostro Autore pubblica la raccolta poetica dal titolo “STUDI LIRICI (Solo parole d’amore)” [ la cui scheda descrittiva – che di seguito riportiamo – è visibile sul sito della casa editrice all’indirizzo: http://www.lavitafelice.it/scheda-libro/francesco-palmieri/studi-lirici-9788877994608-35202.html ]. 

 Non è facile parlare d’amore. E soprattutto è difficilissimo scrivere poesie d’amore. Non è facile dopo Prévert, Neruda, Salinas, Hikmet ed altri ancora. 
Ma l’amore non appartiene all’esclusivo sentire – per quanto raffinato – dei grandi poeti, l’amore non è circoscrivibile all’interno del linguaggio di poesie che pur hanno saputo toccare i vertici del sublime o la dimensione abissale e seduttiva della tragedia erotica; l’amore è un sentimento originario, primario, archetipico, che attraversa tutta la Storia umana, tanto è radicato a fondo in ogni uomo e donna; ed è per questa ontologia dell’amore che se ne è scritto, se ne scrive e, presumibilmente, se ne scriverà.
Gli «Studi lirici» si inseriscono idealmente in questa immaginaria filogenesi, forse con l’intento di testimoniare al presente, nell’ora e qui, come ancora oggi agisca, incida e funzioni la fisica e la metafisica dell’amore, quell’Eros così universalmente provato, vissuto e patito, seppure attraverso il filtro – e non potrebbe essere altrimenti – di un Io che vi si pone di fronte, armato unicamente di ascolto di sé e di parola. Non a caso il sottotitolo della silloge è «solo parole d’amore». 
[...] sono un percorso intimo-erotico che non solo pare indicizzare il divenire dilemmatico dell’amore, il suo doppio volto sublime/terrorizzante, ma hanno contestualmente una implicita funzione di catarsi, di necessario abbandono e poi liberazione nella e dalla conflittualità eros/pathos, una sorta di tentativo estremo di dire, raccontare l’esaltazione e la caduta quando Amore diventa il linguaggio fra un Io e un Tu. 












IL GIOCO DELLA VERITÀ 



Bruciare fino all’ultima scintilla,
questo tocca,
strappare con i denti dalla pelle
la residua piuma che ti resta. 

Recidere lo spago ai palloni nella testa,
pungere le bolle per lo scoppio
e sia l’aria e il nulla
l’inconsistente che li tiene. 

Gli occhi affilo adesso
come pugnali aguzzi
ed è censura dura
il fermo nell’orecchio, 

infilzerò a mezz’aria ogni miraggio
e sarò sordo al flauto dell’incantatore,
i cigni lascerò affogare nello stagno
e sarà bianco sopra all’acqua
(di ali mai partite). 

Domani,
al cenno lieve della luce,
riporrò i vestiti sulla porta
e uscirò nudo
al ghiaccio che c’è fuori. 

In cielo. In terra.
E dappertutto. 






COSA RESTA DI UNO SPOGLIATO CIELO (la poesia...) 



Ed ora siamo al dunque. 

Si è incassato il colpo
di non essere prodigio
(infelici troppo
per stare nel mantello
di deità materne,
dentro la premura
di un genitore immenso). 

Siamo carne in movimento,
braccati dalla fame
e un giorno preso a caso
ci ferma il calendario. 

Rimane in mezzo al petto
una conchiglia cava,
la zucca senza polpa
mangiata dalle mosche: 

puoi soffiarci dentro
perché sia poche note
l’aria che ci resta. 

Il segno d’elezione.
La guardia all’estinzione. 






UOMINI ED ALI 



Forse non ti è chiaro
quello che mi tocca, 

spazzare il pavimento dagli avanzi,
dai nastrini e le coccarde,
i fili rotti delle stelle
(che chi poteva immaginare
fossero ritagli d’alluminio). 

Non l’ ho chiesto io
(a chi? alle muse? a chi?)
di mettermi di stanza sul confine
dove barbari in assedio
è già da tempo
che tentano sortite.
Per questo il mio racconto
è solo guerra,
il dirti chi è caduto
e chi ancora vive,
sopravvissuto. 

Anch’io avrei voluto
un viaggio d’aeroplano,
la perpetua sospensione
della velina in aria,
la spinta nel burrone
e poi le braccia
già addestrate al volo,
come l’aquila, il falco, 

un angelo mai visto. 






INUTILE SCONGIURO 



Ogni giorno spargo il sale
sulla mia porta,
ma entrano gli spettri,
ugualmente. 

Ripongo nell’armadio l’abito buono
e dico all’anima che preme:
rimani nel rifugio,
qui piovono le bombe (ancora?).
Al tuo passo, a te,
ancora questo non è mondo. 

È stato tutto un sogno, dico,
la storia di una sera
ad aspettare il sonno
perché già allora 

(ma io non lo sapevo) 

l’abisso sotto al letto
mi teneva sveglio. 






NON VOGLIO ANDARE 



È lasciarti ancora nuda dentro al letto
ed io insaziato a fare le valige,
questo avvelena i giorni a rimanere. 

(Lune piene i balzi eretti dei tuoi seni,
carne che io ho morso
la polpa a fianchi e spalle,
poi le labbra, il ventre, il collo delicato.
E ancora le tue gambe
strette in giro alle mie gambe
e il tulipano acceso
ed io lo stelo nell’euforia di crepa). 

È il cesto di frutta al centro della stanza,
uva, datteri, ciliegie, il rosso del melone,
un ramo di limoni, nespole e lamponi,
ed io a fare le valige
perché dovrò partire,
andarmene per sempre. 

È il quadro alla parete che ripete il mare,
l’azzurro di un’estate che mai potrà finire,
la barca, un pescatore, vele lontane e voli,
conchiglie sulla riva. 

E poi dalla finestra gli alberi,
colori nei giardini, i fiori, l’erba,
il grido di un bambino, i baci innamorati
sopra alle panchine
ed io a fare le valigie,
a prepararmi all’attimo d’eclissi. 

E non sarà la luce
a farsi ombra. 






AMORE IN NATURA MORTA 



Ti lascio, amore mio,
come un frutto il ramo
alla fine di stagione,
come un’onda l’oceano
nel tuffo sulla spiaggia,
come lo stormo i nidi
quando il tuono chiama
il tempo di migrare. 

Ti lascio, amore mio 
come la luce
nell’ora della sera,
come l’ultima parola
in fondo a un libro,
come chi prende il treno
per un altro viaggio. 

Ti lascio, amore mio,
e non vorrei, 

potessi, 
sarei argine ancora
al fiume e alla piena,
sarei fossato e muraglia
all’assalto di ere,
ai giorni feroci
che non mancano mai 

(ma nello specchio mi accerto
di chi sono,
non più chi ero,
e manca il coraggio
alla sfida degli occhi,
alla luce spietata
sui solchi e le pieghe). 

Svanirò come fumo
e tu non vedrai,
svanirò come soffio
pur regalandoti rose. 

Ti lascio, amore mio,
non io che sono.
Ti lascia chi fui. 






FILOSOFIA MINIMA 



Cosa c’è da capire
in una giornata
che inizia e poi finisce
e in mezzo
un respiro, vita d’occhi,
orecchie, pelle, lingua,
un profumo di colonia. 

Dove andiamo:
ma al morire
ad uno ad uno
come pesci, come uccelli,
frutti di una stagione sola
(la primavera breve
e troppo novembre troppo dicembre). 

Chi siamo:
a volte fiori
a volte ruspe,
carogne sotto il barocco
di un discorso,
sempre carne a consumarsi
tra un orgasmo
e uno spavento,
un decollo d’astronave
e poi il suolo ed il fracasso. 

Da dove veniamo:
dal ventre di una madre
dove un sacco nelle viscere
era l’infinito intero
e sonno quieto il buio… 

Poi l’eterno
si spezzò alla luce.
Con un grido. Un pianto.
Il primo.
Ed è tutto quello che sappiamo.
Per davvero.















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1 commento:

  1. Ho già detto alcune (poche) cose che penso - e che sempre più si arricchiscono di contenuti e significati e impressioni forti, spesso definitive - del farsi della Poesia in Francesco Palmieri. Una Poesia considerata necessaria da Alessia d'Errigo. Tale convinzione io condivido assolutamente e totalmente. Ho scoperto da poco tutta la poesia che anche la prosa di Francesco contiene e si lascia talvolta debordare. Cifrari dalle dorate cifre, acuminate frecce il cui bersaglio è il cuore della vita, l'intima essenza delle cose umane, tutti mali mondani, le immagini del nulla, le malattie dellanima, i segreti indicibili o quelli inconfessati. E' un elenco infinito. Dirle richiede tempo. Ma come dice Francesco: "il tempo non è un'unità di misura".

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